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Banche: Dall'inizio della crisi 1.200 miliardi in fumo

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Banche: Dall'inizio della crisi 1.200 miliardi in fumo

di Fabio Pavesi

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Il drammatico ridimensionamento

Da Gm a Rbs: la Borsa penalizza le blue chip. Avanzano nuove regine

Più che un violento collasso, istantaneo e mortale, è una sequela penosa di una lenta agonia.

Se non è una banca è l'altra. Non passa giorno che un istituto di credito non alzi bandiera bianca, finendo tramortito in Borsa e salvato per i capelli dalla ormai consueta iniezione di denaro pubblico. Solo nei giorni scorsi è toccato a Royal Bank of Scotland crollata del 66% sul listino in una sola seduta, dopo aver annunciato una perdita clamorosa di 28 miliardi di sterline per il 2008.

Una zavorra tale da portare dritta al fallimento la banca senza un intervento urgente dello Stato. Che, puntuale è arrivato portando la quota di controllo del Governo al 70% del capitale. Un copione già visto. Basta enumerare i salvataggi del Tesoro Usa sulle più grandi banche d'affari del Paese e quelli messi a disposizione dai Governi europei.

Una pioggia di denaro pubblico stimabile, a fine 2008, in oltre 3mila miliardi di dollari per fronteggiare gli effetti della crisi che è costata finora tra crack ed evaporazione del valore di Borsa, la bellezza di oltre 1.200 miliardi di dollari. Come non ricordare il tragico fallimento di Lehmam o l'intervento su Citigroup del novembre scorso con un'iniezione diretta di liquidità da 20 miliardi e garanzie su asset per 300 miliardi. O la gloriosa Merrill Lynch inghiottita (e così salvata) da Bank of America, senza dimenticare la prodigalità del Governo svizzero su Ubs o dei Governi belga e olandese su Dexia e Fortis.

Ma anche chi appare più solido, rischia di esserlo solo in apparenza.

Una lezione "amara" l'ha data al mercato proprio quella Bank of America che fu salutata come la salvatrice di Merrill. Ebbene non solo si è presentata agli investitori con una perdita nell'ultimo trimestre per 1,8 miliardi, ma ha dovuto chiedere l'intevento del Tesoro Usa per aiuti per 20 miliardi e garanzie su asset tossici per 118 miliardi. Ma anche Citigroup ha sorpreso per ben due volte il mercato: la prima lo scorso novembre con una poderosa ciambella di salvataggio, solo 5 giorni dopo aver comunicato che "la banca resta forte, abbiamo diminuito i rischi e la nostra disponibilità di capitale è elevata". Errore grossolano, scarsa trasparenza o una crisi talmente profonda da riservare sempre nuove perdite. Già perché due mesi dopo quelle dichiarazioni Citigroup ha chiuso il trimestre con 8,2 miliardi di perdite e ha deciso di scindere le attività illiquide in una bad bank.

C'è ancora da stupirsi delle continue docce fredde sui conti delle grandi banche d'affari? Proprio no. Era ed è (ancora) talmente tanto elevata la dimensione delle attività deteriorate, senza prezzo e senza mercato, che ogni trimestre non può che vedere nuove svalutazioni.

La mina degli asset tossici

Basta guardare, ad esempio, ma vale per quasi tutti i protagonisti della (ex) rutilante finanza anglosassone, i conti di Citigroup. Ancora lo scorso novembre la banca forniva uno spaccato del suo attivo. Ebbene su 2mila miliardi di dollari complessivi, quelli realmente liquidi erano molto meno della metà.

Già perché tra mutui e trading e la voce altri (ovviamente non specificati) erano classificati ben 1.400 miliardi di quei 2.000. Come se il signor Rossi ti dicesse che il suo patrimonio ha un valore di 20mila euro, ma di 14mila non sa qual è né la composizione né il vero valore. Senza dimenticare che c'erano all'epoca classificate poste fuori bilancio per la bellezza di 1.200 miliardi. Una contabilità parallela fatta di Siv, conduit, veicoli speciali che pesava per il 60% del totale delle attività del colosso bancario.

Il caso Goldman Sachs

E che dire di Goldman Sachs che pure versa in condizioni migliori di altri concorrenti?

Solo due mesi addietro la banca rassicurava gli investitori dicendo che aveva ridotto (negli ultimi 12 mesi) gli asset a rischio dal 245% del capitale netto della banca a un tranquillo 82% e che disponeva di liquidità in aumento da 61 miliardi del novembre 2007 a oltre 100 di novembre 2008. Più solidi di così? Eppure nel periodo settembre-novembre la banca è passata da 810 milioni di utili netti a -2,2 miliardi con le attività di trading che accusano un rosso di 4,4 miliardi.

E così l'anno più terribile della storia della finanza mondiale ha voluto dire per Goldman Sachs passare da 11 miliardi di profitti netti a poco più di due. Una disfatta avvenuta nonostante il forte ridimensionamento della bolla di quell'attivo gonfio di titoli illiquidi.

Banche come hedge fund

E così il tema che tiene tutti (amaramente) insieme in questa Caporetto della finanza globale è quello del dazio che si paga agli eccessi della finanza creativa e spregiudicata che ha imperversato negli ultimi 15 anni. Snaturando il ruolo delle banche d'affari fino a renderle dei giganteschi hedge fund senza regole e controlli. Con la differenza che un hedge fund vero si copre in genere rispetto alle scommesse che fa sui mercati, mentre le grandi investment bank hano accumulato rischio su rischio senza nessuna copertura. Basta guardare il livello di leva (cioé il rapporto tra i soldi presi a prestito e il capitale) per accorgersene. Era tipico avere esposizioni debitorie dalle 40 alle 50 volte il proprio capitale. Con quel volume di fuoco si comprava di tutto: dai mutui subprime, ai Cdo a tutte le diavolerie della finanza derivata. Tutto è andato bene finchè il motore del mercato girava: le banche compravano e vendevano questa paccottiglia e segnavano nell'attivo un valore tendenzialmente crescente. Quando lo scoppio della bolla immobiliare ha gelato il mercato dei prodotti a esso collegati è stata la fine. Quegli attivi senza più scambi finivano per valere cifre del tutto aleatorie. E con una leva di 30 volte, ad esempio, basta una perdita del valore degli asset del 3% per prosciugare tutto il capitale di un istituto. E così la grande avventura della finanza facile è giunta al capolinea. Si ripartirà, ma a un prezzo onerosissimo per la collettività che si troverà sulle spalle debito privato convertito in debito pubblico.

 

 

 

 

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